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Qualcuno, a proposito della decisione di disputare i playoff in serie C, ha scritto: “si sono scontentate 59 società per farne contenta una”. Facile capire chi sia la sessantesima. 

L’ultimo atto di una categoria calcistica che deve urgentemente essere riformata per evitare di cadere nel ridicolo. Qual è la differenza tra una professione e un hobby? Semplice: la professione deve produrre un utile all’imprenditore, l’ hobby procura solo costi.

Da qui la differenza tra professionismo e dilettantismo.

Un’azienda professionista produce un prodotto che dovrà essere venduto per portare un utile.

I playoff, prodotto di punta di una squadra professionistica di serie C, dovrebbe essere venduto in un supermercato chiuso (gli stadi).

Per produrre questo prodotto l’azienda è chiamata ad un investimento economico di parecchie migliaia di euro. Il “Roi” ( return on investment) sarebbe pari a zero.

Un’azienda professionista si circonda dei migliori manager  presenti sul mercato per centrare gli obiettivi di business, ossia per essere competitiva sul mercato e avere margini operativi importanti.

Nel calcio di serie C la “conditio sine qua non” per poter sopravvivere, ossia per limitare le perdite, è di assumere obbligatoriamente il maggior numero di giovani calciatori per poter avere  un contributo indispensabile per centrare l’obiettivo di sopravvivenza.

Il parallelismo con le aziende porterebbe ad assumere obbligatoriamente dei manager giovani per poter avere un contribuito di sopravvivenza. Un no sense!

Ossia, un professionismo assistito, una specie di reddito di cittadinanza aziendale, che nulla ha a che vedere con la moderna concezione di imprenditorialità.

Questo sarebbe sinonimo di professionismo?

In sintesi, accostare al professionismo realtà che faticano a chiudere un bilancio in parità, non per colpe proprie di cattiva gestione finanziaria, ma per la struttura organizzativa ove sono chiamate ad operare, è esercizio impossibile.

Se un’azienda produce un prodotto che interessa a pochi consumatori finali, che non interessa agli sponsor, che non ha visibilità sui canali media, è destinata ad avere un profilo artigianale per proporsi a livello locale.

Una dimensione che le permette di avere un rapporto costo-beneficio positivo.

Illudersi di proporla in uno scenario competitivo di mass market, equivale a violentare la natura dell’azienda, modificandole il dna e destinandola alla scomparsa.

La possibilità data alle squadre di serie C di partecipare volontariamente ai playoff è stato il modo perfetto per dichiarare pubblicamente il fallimento del progetto serie C.

In pratica, molte squadre non parteciperanno a quello che è stato l’obiettivo di tutte da inizio anno.

Come se una azienda decidesse di disertare la fiera più importante del settore.

Ovvio, che chi è costretto a dire no, lo fa perché non ha la struttura organizzativa e finanziaria proporzionata all’impegno che viene chiesto di sostenere. E, quindi, non fa parte di quel mondo.

Da chiedersi se siano le società rinuncianti ad essere fuori da quel mondo, o se sia il mondo a non essere ospitale tanto da essere costretto ad una esagerata selezione naturale.

E’ triste vedere società quali Modena, Arezzo e Piacenza, rinunciare ai playoff, ma è anche triste sapere che questo avviene con il totale assenso dei tifosi che comprendono e condividono totalmente i motivi di tale scelta. Un buonsenso diffuso che cozza con la totale mancanza in altre sedi decisionali.

Chiaro che non si è di fronte ad una scelta, ma a un obbligo per talune realtà chiamate ad essere più professioniste di quello che pensavano di essere.

La stessa volontarietà di partecipazione, senza nessun tipo di conseguenza per le società non partecipanti, testimonia la consapevolezza degli organi federali a riguardo del fatto che si sta chiedendo ad una Fiat 500 di partecipare al Gran Premio di Monza.

O meglio, di Bari, visto che a Monza il gran premio lo hanno già vinto meritatamente.

Flavio Vergani


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